Stai avanzando cibo e ti spiace buttarlo via? Puoi evitare lo spreco con il food sharing. Ma cos’è il food sharing? Come funziona? Cosa dice la legge?
Cos’è il food sharing? Negli ultimi anni sento sempre più spesso rivolgermi questa domanda. Attenzione non parliamo della moda di fotografare il cibo e postarlo su Instagram ma di un sistema per razionalizzare il cibo. Negli ultimi anni sentiamo sempre più spesso parlare di spreco alimentare e di sovra utilizzo delle risorse del Pianeta. Solo in Italia, stando al Rapporto Waste Watcher 2019, lo spreco alimentare è stimato per € 15 miliardi all’anno, pari 0,88% del PIL. Di questo i 4/5 provengono dallo spreco domestico e 1/5 dalla filiera. Nel mondo, secondo la ricerca del The Boston Consulting Group , si parla di 1200 miliardi di dollari all’anno pari al PIL del Messico o dell’Australia.
Numeri da capogiro. Ancor più se rapportati all’aumento della povertà scatenata dalla crisi del 2008. Ma cosa si può fare? Le soluzioni sono molteplici, si parla di una migliore razionalizzazione della filiera, di una miglior conservazione degli alimenti e di una maggior cultura sul cibo. Fra tutte svetta la food sharing.
Ma cos’è la food sharing? Potremmo definirla, in maniera piuttosto sbrigativa, come un sistema di razionalizzazione del cibo all’interno di una comunità attraverso l’utilizzo di piattaforme on-line.
Come abbiamo visto in innumerevoli articoli, gli esempi di Sharing Economy riguardano beni durevoli e il loro utilizzo e riutilizzo. Nel caso del food sharing parliamo invece di beni di consumo.
Fondamentalmente nel settore alimentare il problema principale è l’invenduto che per sua natura è deperibile e questo comporta che venga gettato al macero. Lo stesso problema è traslato nelle case dei cittadini per cui tutto ciò che non consumano dovrà essere gettato via e in Italia si parla di circa 65 kg all’anno per cittadino (dati Fondazione BCFN).
In cosa consiste il food sharing?
Esistono 2 modelli di business diversi. Uno è il sharing for the community che riguarda il no-profit, l’altro è lo sharing for money, in altre parole è orientato al profitto.
Entrambi i modelli utilizzano piattaforme on line che permettono agli utenti di mettersi in contatto l’uno con l’altro, favorendo l’incontro fra domanda e offerta. Da un lato c’è l’utente che ha cibo in scadenza, dall’altra quello che ha bisogno di derrate alimentari. In un caso lo scambio avviene dietro compenso nell’altro no.
Gli utenti dal lato offerta possono essere i singoli cittadini o aziende del settore food come i supermercati, ristoranti e mense aziendali. Quelli dal lato domanda possono essere cittadini o associazioni di volontariato per i più bisognosi.
Come funziona il food sharing?
Esistono diverse piattaforme sharing for the community di cui la più nota è la tedesca foodsharing.de che ha fatto da apripista del settore in Europa e che coinvolge associazioni di volontariato e aziende che operano nel settore food. Lo stesso discorso vale per le sharing for money di cui citiamo la danese Too Good to go (troppo buono per essere buttato via) dove si permette di individuare all’utente quei punti vendita che, avendo cibo prossimo alla scadenza, lo vendono a un prezzo più basso. Di queste e altre app parleremo più in dettaglio nei prossimi articoli.
La legge cosa dice?
Dal punto di vista legislativo, l’Italia può vantare una legge che può facilitare lo scambio di beni alimentari. Si tratta dalla legge LEGGE 155/03 del giugno 2003 che disciplina la distribuzione dei prodotti alimentari a fini di solidarietà sociale. La legge è altresì detta Legge del Buon Samaritano che equipara le organizzazioni di volontariato al consumatore finale. L’equiparazione al consumatore finale permette di bypassare le fasi tipiche della filiera e regolamenta solo quelle di trasporto, deposito, conservazione e utilizzo. In tal modo non si rinuncia alla tutela della salute delle persone affidando alle organizzazioni il compito di garantire la sicurezza alimentare, così come avviene nel contesto famigliare.
Questa legge ha permesso nel 2015 ad Eni di far partire il progetto Siticibo recuperando il cibo in eccesso delle loro mense per ridistribuendolo alle persone bisognose. Il progetto Siticibo è un servizio del Banco Alimentare Onlus e altre alla sopracitata Eni coinvolge 40 ristoranti aziendali nella sola Milano distribuendo ogni anno più di 260 mila porzioni di cibo a 80 strutture caritatevoli.
Market place del cibo?
Diciamo che il modello sin qui illustrato è piuttosto simile a quello delle piattaforme che permettono la condivisione delle scorte di magazzino attraverso uno scambio P2P tra gli utenti. Siccome per i beni di consumo non si può, per ovvi motivi, parlare di riutilizzo è preferibile dire che si dà un’ultima chance di consumo dei prodotti inutilizzati. La proprietà del bene passa, quindi, da un soggetto a un altro. Da un cedente a un cessionario. Per certi versi il rapporto commerciale che si instaura tra gli utenti assomiglia a quello che avviene tra quelli che comprano e vendono roba usata. Infatti le piattaforme di food sharing sono dei market place (al pari di Ebay, Subito, Facebook Market place) con una struttura dedicata al recupero del cibo.
Il food sharing in Italia è in fase embrionale, ma esistono molte iniziative interessanti che coinvolgono territorio e comunità e che illustreremo nei prossimi articoli. Ma in Italia è così, lo stare a tavola è un atto di comunità e stare assieme porta sempre buon umore.